mercoledì, marzo 08, 2006

Tante Donne quanti cucchiai di mimose


Donne, signorine, caste allegre e così così, piovre, scorfani e cessi, ragazze nel fior della giovinezza, laide, toniche o burrose, sole o male accompagnate; bambole, puttan-suore, intangate o immutandate alla moda del ’39, fiori da cogliere e fiori già appassiti: questo è il vostro giorno, e Giovanni, il vostro più caro estimatore, vi porge i migliori auguri per una splendida splendente Festa della Donna!
Vi amo, e lo sapete. O meglio, nella mia vita ho sempre amato tutte le donne che non mi hanno mai cagato, e quindi mi ritrovo ad amarvi tutte, dalla prima all’ultima, senza distinzioni.
Dicono alcuni “Non mimose, subdole strumentalizzazioni commerciali e blablabla blablabla”. Ma dico io, ai fortunati che quest’oggi hanno una Donna da festeggiare: “Regalate alle vostre donne mimose, sotterratele con palate di profumati fiori colorati, perché cosa meglio di un fiore, può rappresentare la Bellezza che ci regalano ad ogni sorriso!” Il fiore è il modo migliore per esprimere il sentiero della vita, un regalo piccolo, fugace, per ricordarci il segreto della nascita, della crescita e della morte, che non è morte, ma trasformazione, e non è egoismo, ma adorazione.
Amatele, le vostre Donne, cari compagni lettori, e siate felici che per ogni dono d’amore, per ogni sacrificio vegetale c’è un sorriso che sboccia sulle labbra di una Donna. E, lasciatemelo dire, morire per rinascere sulla bocca dell’amata, quale sacrificio non vale simile poesia!
Auguri, Donne, perché siete la nostra linfa. Una donna senza un fiore oggi è una Donna triste.
E un fiore senza una Donna non vale la Bellezza che porta con se.

domenica, marzo 05, 2006

Evoluscion not Soluscion: ovvero, come imparai a camminare tanto senza andare da nessuna parte



“Chi mai sarà?? Vogliamo sapere tutto di lui!!” è questa la frase che da giorni vi starà frullando per la testa, cari amici miei, e da cui non riuscite a liberarvi. Avete provato con gli psicofarmaci; poi immergendo la testa in acqua ghiacciata a intervalli intermittenti (pratica sconsigliata a quanti – ed è una larga fetta di lettori del mio blog – son soliti portare a spasso la testa solo per poterci riporre dentro quei 2-3 kg di segatura e aumentare così il peso specifico della loro scatola cranica: la segatura potrebbe inumidirsi); alcuni avranno provato con l’ipnosi; molti di voi saranno ricorsi agli psicologi; i più ostinati alla cartomanzia, e all’astrologia; tutto questo per liberarvi dalla curiosità morbosa e irrefrenabile nel conoscere chi sono. Eccovi accontentati! Mi chiamo Giovanni, come i miei fan già sapranno, vivo a Roma, dove studio. Nato a L’Aquila, in terra d’Abruzzi, un lontano 17 ottobre (e non poteva che essere un venerdì) del secolo scorso, scoprii fin da piccolo le mie innate capacità intellettuali che tanto decantavano i miei nonni, e i miei genitori. “Che testa che ha quel ragazzino!, dicevano”. Anche i miei compagni d’oratorio la pensavano così, ma in un'accezione diversa: erano soliti usarmi come centravanti di “peso” (antica tecnica di gioco nel calcio dilettantistico, che consisteva nell’usare il centravanti di sfondamento – quale io ero – con mera funzione di intimidire psicologicamente gli avversari, sbuffando come un cinghiale al laccio e lanciandomi alla carica frontalmente a mò di ariete fino a che un ostacolo non faceva terminare la corsa). A fine anno il bollettino fu di 15 costole rotte degli sventurati terzini di turno, 22 contusioni nasali e settantatre pali della porta avversaria ammaccati. Lì capii che le mie grandi doti dovevano essere usate diversamente. Così quell’anno mi iscrissi a lezioni di pianoforte. Partii alla carica, ma inciampai sul gradino della porta il primo giorno di lezione, rompendomi 8 metacarpi e 4 falangi in fratture multiple e scomposte. Perciò, in quel lontano pomeriggio di seconda elementare, la mia prima lezione di pianoforte diventò anche l’ultima, e decisi che se dovevo diventare qualcuno, sarei diventato un karateka provetto. In realtà, in quel tempo la mia massima aspirazione era diventare spider-man, e dondolarmi da un grattacielo all’altro per spiare le toilettes delle donne e scoprirne i segreti. Ma all’epoca c’erano pochi grattacieli per l’Aquila, e così mia madre decise di iscrivermi a karate. Lì passai otto anni a prendere ceffoni cazzotti e calci volanti sulle gengive da parte degli amati compagni di corso, in un clima cameratesco che cominciava a influire in modo indelebile sulla mia psiche. A 7 anni rincorrevo lucertole per la strada accanto a casa per scuoiarle e vederle contorcersi dal dolore. A 11 sfogavo la mia rabbia contro Marco, detto il Belengo, un simpatico ragazzetto smoccolato e inocchiolato che a fatica distingueva a trenta centimetri la sagoma dello scheletro di un mammut da quella (forse neanche troppo diversa adesso che ci ripenso a distanza di anni, almeno per le corna) del mio professore delle elementari. Marco era lo scemo del villaggio, il tizio da deridere a tempo perso e , naturalmente, l’oggetto su cui far ricadere le colpe di tutti. Fu accusato, ingiustamente, in cinque anni, di aver rubato zaini e cartelle di una ventina tra alunni e alunne, di aver appeso il fuoco ai registri di classe, di aver mandato in frantumi le finestre di una decina di aule, di aver scritto a caratteri cubitali sulla lavagna “la maestra Teresa è una bochinara” con una ci sola (perché all’epoca oltre che stupido era anche caprone), di aver portato a scuola uno stuolo di topi in età riproduttiva e averli liberati per i cessi dei bagni, e fonti meno accreditate lo vedono anche come il responsabile del terremoto che colpì l’irpinia nell’80, ma queste sarebbero notizie da verificare, a tutt’oggi nessuno ha fatto ancora chiarezza. A 11 anni scoprii finalmente la droga, e da allora, per i 2 anni successivi, mi impelagai nelle nefaste conseguenze della dipendenza, e dell’astinenza dalla sostanza tanto agognata. La sostanza in questione erano le treccine Mulino Bianco, che consumavo regolarmente la mattina, in numero di 2 (4 la domenica) , altre 2 il pomeriggio, per finire con un richiamino la sera, prima di andare a letto, in numero variabile da 4 a 6 a seconda delle aspettative della serata, e del tempo che mancava prima dell’inizio dei film a luci rosse che retequattro programmava a randello nei suoi palinsesti per pippaioli e mariti insoddisfatti. Fu allora che conobbi i vari Alvaro Vitali, o le cosce lunghe della Fenech, e ancora le docce della Buscè, che a poco a poco mi misero in contatto con Federica, la mano amica che non tradisce mai. Cinema trash riesumato a forza, su cui erano cresciute generazioni. In quel tempo presi 16 kg in due mesi e mezzo, e fu allora che i miei decisero di mandarmi a nuoto. Ma lì mi vergognavo, così ripiegai nell’atletica leggera. Dopo la prima lezione ripiegai anche il completo da atletica leggera, con cura, e decisi che la mia improvvisa, e fulminante, carriera sportiva sarebbe finita lì.
Ad un tratto comparve la playstation. Ma ero strano, io. Alla playstation preferivo le figurine panini, e alle figurine panini preferivo i panini, con speck uovo e cetriolini sott’olio, di cui mi cibavo a gruppi di 16 tentando di battere il record del mio amico d’infanzia Francesco, che con inspiegabili giochi di magia fagocitava cetriolini a gruppi di 27 col resto di 4 . Non so spiegarmi bene il perché, ma non mi sentivo molto accettato, in quel periodo. Sarà stato che a 14 anni ero alto 1,44 contro il metro e settantadue di Francesco. O forse il fatto che pesavo settantadue kg, contro i 44 di Francesco, si, sempre lui. O per i denti a castoro, o ancora per l'acconciatura che poi Matt Groening rese celebre sulle spalle di Telespalla Bob (e, ci tengo a sottolinearlo, ancora non ho visto un soldo dico uno per l’indebita appropriazione della parrucca da uomo cavernicolo che mi contraddistingueva). Ma, era come era, le ragazze a qual tempo erano merce da sfottere, una razza diversa che non andava toccata per paura di rimaner contagiati. Poi cambiarono le cose, e si invertirono i ruoli. E, nonostante non aspettassi altro che una donna che mi toccasse, ciò non succedeva. Se avveniva era per sbaglio, o per intimarmi a ceffoni di allontanarmi.
Un giorno mi dichiarai a una donna. Si chiamava Giulia, ed era magrissima. Buona da tagliarci il tonno, per quant’era magra. Complementari, questo si. Insieme raggiungevamo il peso di 2 persone normali, ma divisi difficilmente l’avreste scambiata per qualcosa di più del mio impermeabile, o del sacchetto della merenda (vuoto, sia chiaro). Per telefono. Lo ricordo come fosse ieri. E quella fu la prima mazzolata tra capo e collo della mia vita. Piansi. Piansi. E piansi ancora. Il terzo giorno mio padre si decise a chiamare l’idraulico, credendo che il bacino artificiale da me creato dipendesse da una perdita in un tubo dell’acqua, dalle parti della mia stanza.
Per dimenticare la batosta, cominciai a suonare al conservatorio. Suonai otto anni, quando finalmente decisero di aprirmi. Nel frattempo però le mie aspirazioni erano cambiate.
Un giorno, senza preavviso, intorno ai 14 anni, decisi di diventare un intellettuale.
Poi mi informai, e seppi che nell’epiteto “intellettuale” all’epoca erano annoverati nientepopòdimenoche personaggi del calibro di un Mughini ancora in buoni rapporti con l’ottico di fiducia, o un\una Platinette allora emergente (di certo non passava inosservato\a) o un Vittorio Sgarbi che veniva pagato per allentare buffi e ganci da pugile a destra e a mancina, e smadonnare in cirillico antico in tv in un programma tutto suo. Allora compresi che rimanere ignorante sarebbe stato il male minore.
La primavera del 2000 diventai fascista.
L’estate, di quello stesso anno, mi consideravo un anarchico convinto. Poi mi informai, e capii cosa voleva significare.
Fu così che diventai comunista. Mi sentivo anche ecologista in quel periodo. Molto pluralista. Ad un tratto però cambiai, e diventai classista. A 15 anni lavorai il primo giorno in vita mia, per un teatro cittadino che mi sballonzolava su e giù per la città come bassa manovalanza ai servigi di attorini di piccolo calibro. A quel punto potevo considerarmi di diritto, a tutti gli effetti, stakanovista, e aggiunsi un altro “ista” alla lista degli epiteti. In ordine, poi, fui indipendentista basco, arrivista e opportunista ma all’occorrenza anche socialista; marxista, pacifista e leninista, banchista in un piccolo bar del centro, esistenzialista, maoista e sostenitore di Beriscia. Un bel giorno, essendo finiti i termini, cominciai a invertarne di nuovi. E allora ricordo il periodo Deandreista, Chegueravista, Informativista, poi Guccinianista e poi ancora Deandreista.
Poi mi accorsi che ancora non mi ero fregiato dell’epiteto di ciclista. Comprai una bici. Un casco. Ginocchiere, cavigliere, polsini, bici di riserva, computer di bordo da bici, ruota di scorta e affittai un team di gregari con l’intenzione di partecipare alla l’Aquila-San Pozzo D’orsola Scurcola Marrucino, piccolo paesino abruzzese non segnato sulle carte che vantava come residenti: il sindaco, la scrofa Geltrude (che da sola rappresentava il 70% del PIL locale, e all’occorrenza anche gingillo con cui il sindaco soleva divertirsi nei momenti di magra) 2 lupi famelici, 3 galline (vecchie) e un brodo (buono); primo premio, una coppa, o un prosciutto, a scelta, simpatico dono da parte dell’ei fu concubino di Geltrude, scomparso poco prima in circostanze ancora poco chiare. Comprai anche un cronometro, e un metronomo.
Poi venni a sapere che il metronomo serviva a tutt’altro. Appesi al chiodo la bicicletta, allora. E il chiodo si ruppe. La forcella della bicicletta mi cadde sul piede frantumandomi il ditone. Abbracciai la chitarra, quindi; che si tirò indietro sdegnosamente, indispettita.
Finalmente un giorno, intorno ai 17 anni, mi stufai di tutti questi “ista”. E così, giusto per essere coerente, diventai Fancazzista, e lì rimasi.

Continua.. (forse)

mercoledì, marzo 01, 2006

Sogno numero 1 28/02/2006 14:00/16:00


Quest’oggi ho fatto un sogno. Svegliato, ho deciso di scrivere, a getto, come a flusso di coscienza, ciò che ricordavo del sogno. In tutti i particolari, da quelli esterni, materiali, e sconosciuti all’anima, a quelli interni, vivi dentro, Miei. Una frase dopo l’altra, seguendo l’ordine con cui la mia mente faceva riaffiorare le impressioni. Ci sono lacune, parti della storia onirica perdute per sempre nei meandri della mia testa, che non recupererò più. Ma quello che ho impresso su carta, nonostante sia minima parte di tutto quello che ho visto, basterà a farmi ricordare, ogni volta che vorrò, il sogno, e tutto ciò che n’è scaturito. Un’esplosione di sentimenti, che non riuscirei in nessun modo a trasmettervi, ma che voglio ugualmente condividere, per le tre (e tre di numero) persone che possono potenzialmente leggerlo. Buona visione!

Roma: una città incantata, da favola. C’è un muro, bianco alto. A un lato del muro ci sono i monti Tiburtini, dall’altro lato Piramide. Il tutto in poco meno di cento metri. Vagavo per Roma. In compagnia. C’è una macchina della polizia che passa. Folla per la strada. Una signora, forse ottantenne, sorridente, si mette in mezzo alla strada, impedendo alla volante di passare. Poi altre persone occupano la strada a fermare la macchina, e i poliziotti suonano il clacson, avanzano a poco a poco, intimidendo quella folla, facendosi largo con imprecazioni, e buffi di clacson, e ruggiti del motore, e riescono a sgusciare da quel sentiero di euforia collettiva, di carnevale fiabesco. C’è un bar. Chiedo informazione al barista, riguardo al modo per arrivare dalla fermata dei monti Tiburtini fin lì. Non ricordavo come c’ero arrivato. Ho una cartina, ma non me lo sa dire. È notte. Poi c’è un gruppo di ragazze. Io sono simpatico, piaccio forse, sono estroverso e brillante. Ricordo una ragazza, tra le tante, forse 16 anni, esile, minutissima. Più soffice della neve. Sembrava non esistere. A piedi nudi, ma non per povertà; scalza, sembrava figlia di un parto avvenuto troppo in fretta, che l’ha lasciata grande troppo presto. Le sue dita dei piedi si muovevano ondeggiando a velocità assurda, ed erano dita piccolissime, insignificanti, quasi a sparire; sembrava ricolma d’aria, non di muscoli, ossa, e sangue; e lieve.
Io. E poi vidi lei. La donna della mia vita. Esile anche lei, bassa, bionda, sembrava molto più piccola di me. Ma non l’ho mai vista in faccia. In tutto quel tempo passato insieme, non ho veduto il suo volto. E udito il suo nome. Indossava un maglione rosso. Facciamo compagnia. E’ subito bellissima, e glielo dico. E poi di nuovo. L’abbraccio, e poi ancora, e ancora. Mille abbracci, e altrettanti baci, ci scambiammo per saluto, con naturalezza, come due appena incontrati si danno la mano per fare presentazione. Ma noi eravamo diversi, quella sera. E insieme saremmo stati diversi tutta la vita. Ma diversi di una connotazione non umana. Era amore quello che eravamo. E i cento baci erano il nostro metro di giudizio. Una stretta di mano, come presentazione, tra la gente qualsiasi (ma non del popolo di quella sera; quello era un altro popolo, fatto di pazzi, e buffoni, e stravolgimento della normalità) equivaleva a cento abbracci, la nostra presentazione, che subito svaporò nel tempo sembrando acquistare cento anni, in pochi secondi; C’eravamo appena conosciuti, e già la conoscevo da sempre. E a lei sta bene. Ma sono abbracci di quelli che ti aspetteresti da un padre, non da un ragazzo. Ecco, la parola "mentore", è quella che mi è saltata in testa. La farò crescere sotto la mia protezione, come fosse mia figlia, questo farò. I miei errori, tutti quanti, lei non deve farli. Avrei dato la vita per lei, in quel momento.
E mi guardo allo specchio, mentre l’abbraccio. E sono IO. Ho una borsa con me, con il beauty case, e penso subito ai preservativi, riposti lì dentro. Andiamo a casa sua. Ci baciamo. E’ una casa vecchia, da quel che ricordo. Marmo, lungo le scale, di quel marmo vecchio, che ne ha di cose da dire. E un poggia mano nero, invecchiato o vecchio per forza, e maioliche smaltate, vecchie anch’esse, ricordavano a chi le guardava la beffa del tempo. Ma non per noi due. Noi due galleggiavamo sopra il tempo, e lo spazio, e la materia, nutriti solo d’amore. Le nostre mani esistevano unicamente per essere unite, abbracciate insieme.
Entriamo nel letto, già nudi. Ci baciamo ancora. E poi ci lecchiamo, con dolcezza. Lei è a suo agio. Come l’avesse fatto mille volte. Aveva una pelle candida. Mi sento impacciato. A un certo punto, subito dopo i baci, andiamo via. Sono io ad andare via, forse, non ricordo, sapendo di aver lasciato qualcosa da completare. E sono per Roma, sempre per la stessa zona. Forse è allora che vado al bar a chiedere. Tornando, incontro le amiche della mia Lei, dall’altra parte della strada. Mi guardano, e allungano il passo senza salutarmi. E corro da lei, tornando. La vedo, per strada, con in mano tante, tantissime banconote da cinquanta euro. Arrotolate, due rotoli. Uno lo dà a me, uno lo tiene lei. Mi parla di una rapina, di un ladro. Ma non capisco. Noi, e la città stessa, siamo ebbri di pazzia, e d’amore, e di gioia. Io sono felice. La mia Donna, Lei è superlativa. Si vive attimo per attimo, sempre pronti a lasciarci, ma con la sicurezza che tutto sarà eterno, che non ci divideremo mai, perché non ci divideremo mai, lo so. Uniti, anche divisi.
A un tratto la vedo in una macchina, o comunque in un luogo stretto, chiuso. Si avvicina un uomo, lei sembrava non sentirsi bene. I due parlano, ed io li guardo. Poi mi avvicino, Le vedo il braccio, stanco di un sudore di morte. Le porgo la mano. -Andiamo amore- dico. Lei venne. Subito, rapita solo da me. Vogliamo tornare a casa sua. C’è un muro da scavalcare. Vado avanti io, e dico che l’avrei aiutata. Mentre salgo (e non era la prima volta che lo facevo) il muro, da rosso, con un lieve gradino su cui appoggiare il piede a 50 cm da terra, diventa più basso. E non è più muro. Sopra ci sono una serie di oggetti, di suppellettili. Poi un altro muro, 50 cm più alto del precedente. Ma vedo che Lei sta scavalcando da un’altra parte. Io ce l’ho fatta. Ed anche lei, ancor prima di me. Da sopra il muro si può vedere la Sua casa. Un corridoio, che corre parallelo al muro, con una libreria, bianca, scivola lungo tutta la parete sinistra. Scendendo vedo il beauty-case. -C'è qualcosa da completare- mi dico. Arrivo a terra,e c’è anche lei.

Sento un suono, in lontananza. Ma è un suono reale, non ha niente a che fare con il sogno, che da vorticosa realtà fiabesca, si attenua, comincia a svanire, a regalare gli ultimi momenti di una storia che finisce. Risveglio: gioia, languore dolcissimo, sborniatura celeste, fantastica, irreale, e senso di aver trovato, e subito perduto, la felicità. E la consapevolezza di non aver completato qualcosa. Un sogno incredibile. Quella donna, che non ho mai visto in volto, di cui non conosco il nome, è la donna della mia vita. Esistesse davvero, passerei la vita a cercarla, per ritrovarla, come nel mio sogno. Ma il risveglio ha anche ridato vita ad antichi umori sopiti, e ho rivisto, per un attimo, il corpo, candido anch’esso (impreziosito da calze autoreggenti bianche, le stesse di quella sera che è diventata mattina con noi, un po’ di tempo fa) della Mia Ale.
È mamma. Mi manda il codice per il bancoposta. Che scemo! Ero stato io, a dirle, la mattina, di farmelo arrivare al pomeriggio. E mi ha dato retta, come fa sempre. Con quel tempismo da principiante, con quella puntualità nell’arrivare sempre un attimo prima, o un attimo dopo. Rimango un minuto disteso sul letto, a pensare alla magia appena vissuta. Sono indeciso. Non so se prendere il telefono, e leggere il messaggio, o lasciarmi cullare ancora da quel sogno, e ricordare anche gli eventi minimi, farmi coccolare ancora un po’ dalla mia Lei, non ancora conosciuta e già perduta, per sempre. Vorrei tornare a dormire, e ritrovarla, così come vorrei ritrovarla la notte dopo, e quella dopo ancora. Come due innamorati veri, che si baciano all’ombra di un tramonto, e il sole scandisce i giri che mancano prima di rivedersi, e aspettare, trepidante. Ormai sono sveglio. Anche volendo, non posso ritrovarla. Ma ci provo lo stesso. Non riuscendoci. Mi alzo, allora. Svogliato, senza neanche più la voglia di incontrarlo di nuovo, quel fantasma della mia mente. Non esiste più. È esistita, oh si, più vera del Vero più vero, ma solo per pochi attimi, nella mia testa. Vado in cucina. -Non è nella mia testa, ma è fuori queste mura, che devo trovarla, la Mia donna- sento provenire dalla mia testa. Convinto che, come in quella visione, sarà probabilmente impossibile. Ma lì fuori deve esistere, tanto più che sogni non contano. Prendo il computer, e decido di scrivere questa, la Mia storia, e far vivere Lei, almeno su carta, almeno sotto forma di bit anonimi sempre uguali; di riportare il Mio Amore, e riassaporarlo in futuro, uno splendore innominabile senza eguali.Per non far morire una Bellezza che non è mai esistita. Ed eccomi. Io ti cerco. Non smetto di cercarti. Un giorno ti troverò.


In realtà non so se mi amava. Ma era devota. E bambina, innocente, di quell’innocenza che trasmette chi non sa. E chi non sa non vuole. E lei solo me voleva, e la nostra città, che viveva per noi, danzava allo stesso ritmo della nostra storia d’amore di una sera. Nello stesso tempo donna immensa , e minuta. Leggera, come gli uccelli. Straripante di voglia di vita. Ma lieve. A volte sembrava semplicemente non esistere. Ed era bellissima. Di quelle bellezze da far trasalire il mare. Esisteva solo per me, ed io solo per lei. Il resto era più; il superfluo più irreale e comico mai visto. Una gothan city ambientata a disneyland, con tocchi tragici e surreali, da far impallidire Dalì e i suoi sogni da visionario. Buffonesca. E da sottofondo la notte, una notte calda, una notte d’incontri, di quelle che solo Roma può regalare. Che sogno! Da morirci dentro.

Spiegazione:
Ho chiesto a uno studente di psicologia cosa diavolo potesse significare, questo strano sogno.
Mi guarda perplesso, con ciglio turbato, di quella strana espressione degli uomini di scienza, e candido, mi domanda:
"ma Lei, l'aranciata, l'aveva pagata???"
Fine spiegazione